Quanti contadini per battere un cavaliere?

Dalla Cronaca del Templare di Tiro: la vicenda di Bertrando di Gibelletto degli Embriaci contro un pugno di contadini
Immaginate un cavaliere che se ne va a spasso per le sue terre, per amministrare le sue proprietà, quando a un certo punto spuntano, da dietro un muretto, dieci contadini armati di lance, arco e frecce. Vogliono fargli la pelle. Chi vincerà, secondo voi? La risposta, ve la do subito, è: dipende.
Da un lato abbiamo il cavaliere medievale, uomo di guerra addestrato fin da bambino e ottimamente armato e protetto dal ferro, talvolta così ben protetto da essere considerato “quasi” invincibile. Dall’altro abbiamo miseri contadini il cui mestiere è zappare la terra, armati in maniera semplice; però sono dieci, un po’ tanti. Un paragone affascinante, questo, da sempre oggetto di discussione assieme ad altre tipologie di sfide tipo: chi vince tra un cavaliere e un samurai? E tra un gorilla e cento esseri umani? Ora, per quanto riguarda questi due ultimi scenari, direi che se n’è parlato fin troppo, e non esiste nemmeno una vera e propria risposta. Mentre, nel caso del cavaliere contro 10 contadini sì: in verità, una risposta ben precisa ce l’ho.
Perché questo scenario è avvenuto per davvero, e ci viene narrato in una cronaca medievale del tempo delle crociate, scritta dal Templare di Tiro: un cronista meraviglioso vissuto nei primi anni del Trecento, autore di descrizioni di grandi battaglie, assedi, episodi misteriosi come alcune imprese che riguardano la setta degli assassini. Molte di queste avventure le ho già narrate in alcuni episodi della playlist Leggende Affilate, e adesso è il momento di raccontare la sfida del secolo: dieci contadini contro un cavaliere.
Allora, prima di cominciare, un po’ di contesto. Seguitemi, perché il contesto fa tutta la differenza del mondo. Siamo nell’Oltremare, ovvero la Terra Santa, come la chiamavano all’epoca delle Crociate. E il cavaliere protagonista della nostra storia era tale Bertrando, uno dei signori di Gibelletto: un piccolo feudo nell’odierno Libano. Gli occidentali conquistarono molti di questi feudi, suddividendoseli tra loro per dar vita a un regno. Regno che, per sua stessa natura, era “diviso”, spezzettato. Nel senso che vari baroni e principi e sovrani, avevano ciascuno il proprio fazzoletto di terra da amministrare (di cui erano signori), in un clima di tensione perenne, tutti vicini tra loro e tutti pieni di problemi; e finivano inevitabilmente per odiarsi e farsi la guerra.
Il regno crociato era così. Potremmo riassumerlo come una piccola Europa trasposta in Terra Santa, laddove alcuni occidentali avevano traslocato portandosi dietro tutto quanto, pure i litigi. E infatti, il nostro Bertrando, nobile cavaliere di Gibelletto, aveva origini ben radicate nella sua madrepatria, la quale era nientepopodimeno che Genova. Bertrando era genovese. Per alcuni di voi potrebbe sembrare sorprendente. Ma che ci faceva un cavaliere genovese in Terra Santa, titolato, addirittura con un feudo? Sulla Genova medievale e il suo impero, potremmo aprire un intero podcast da centinaia di puntate. Per riassumere, faccio appello a quel capitolo di storia che studiamo tutti a scuola riguardo le cosiddette Repubbliche Marinare. Genova era una potenza medievale perché mise in piedi un impero spesso definito “commerciale” o “coloniale”. In verità, come vediamo dall’esempio di Gibelletto, talvolta poteva essere considerato un impero vero e proprio, fatto anche di conquiste militari, nel senso che molti territori sparsi per il Mediterraneo (e pure oltre) passarono in mano a signori genovesi o alla stessa repubblica. Si trattava di porzioni o interi feudi, così come quartieri o intere città. Si dice che gli italiani stanno dappertutto, no? Ecco, è proprio vero.
La famiglia genovese cui apparteneva Bertrando era quella degli Embriaci, che col tempo e svariati matrimoni si imparentò con altri signori e famiglie di Terra Santa, specialmente francesi, intessendo una rete di alleanze e inimicizie. Ed ecco che torniamo al nostro Bertrando che vaga per il suo feudo, tutto tranquillo, inconsapevole d’andare incontro a un’imboscata. Imboscata cristiana, di coloro che tecnicamente erano suoi alleati. Perché quei sanguinari dei crociati non dovevano stare attenti solo alle punte saracene, ma pure a quelle dei loro stessi fratelli.
Per concludere questa breve carrellata prima di arrivare al succo della vicenda e allo scontro vero e proprio, dico solo che Bertrando si era trovato in questa situazione pericolosa perché aveva fatto incazzare il Principe di Antiochia e Conte di Tripoli, un signore di cui era ufficialmente un “sottoposto”. La ragione di questa dipendenza era semplice: il feudo di Gibelletto si trovava all’interno della più ampia Contea di Tripoli. Un po’ come un comune dentro una regione. Capite, adesso, perché era un casino il regno crociato?
E tutto questo era pure aggravato dal fatto che il Principe nutriva una profonda avversione verso i Genovesi, a causa di precedenti scontri che si erano verificati nel tempo. Quando poi venne a sapere che Bertrando aveva cominciato ad “alzare la cresta”, mostrando un’insolita arroganza e un chiaro desiderio di autonomia, la sua pazienza si esaurì. Il cavaliere genovese stava attivamente raccogliendo seguaci (tra cui pure l’appoggio dell’ordine dei cavalieri ospitalieri) iniziando a compiere scorrerie per affermarsi come un signore indipendente, per liberare Gibelletto da ogni vincolo feudale. Free Gibelletto!
Il Principe, naturalmente, non poté ignorare tale sfida alla sua autorità. Ottenne l’appoggio dell’altro grande ordine d’Oltremare, quello dei templari, ma si trattava solo di un supporto politico. Perché gli ordini difficilmente sarebbero scesi in battaglia contro altri cristiani. Lo scontro aperto, quindi, era escluso. Anche perché Bertrando, seppur signore di un piccolo feudo, aveva le spalle ben coperte: Genova, come detto, era potentissima, e non si faceva alcuno scrupolo a intervenire militarmente contro altri cristiani (e lo fece più e più volte). Cosa rimaneva da fare al principe d’Antiochia e conte di Tripoli? L’avete già capito: un bell’assassinio.
Invece di assoldare assassini veri e propri, sicari del medesimo ordine spesso citati nelle cronache crociate, il principe assoldò dei semplici contadini, promettendo loro lauti pagamenti se fossero riusciti a portargli la testa di Bertrando. E dice il Templare di Tiro che quel giorno, ad aspettare l’arrivo di Bertrando, si radunarono dieci o dodici contadini, tutti armati, pronti a far la festa all’ignaro cavaliere genovese.
Quel giorno, dunque, Bertrando di Gibelletto cavalcava verso un suo casale per andare a controllare le rendite. In verità non era solo, ma si faceva accompagnare da un altro giovane cavaliere, suo fedele. Perché comunque siamo in Oltremare e bisogna stare all’erta. Entrambi erano armati di spada, e probabilmente di armatura, anche se non viene specificato. La Terra Santa non è tutto deserto come si vede nei film, e infatti i due cavalieri si trovarono a salire un declivio coltivato a vite, in direzione di un altopiano su cui si trovava il casale. La salita era difficoltosa, di non facile percorrenza con i cavalli, e infatti i contadini si erano piazzati proprio lì, nascosti dietro un muretto, in attesa.
Non appena i cavalieri passarono di fianco al muretto, quelli sbucarono fuori all’improvviso per cominciare l’assalto. Bersagliarono i due con le frecce e tirarono loro addosso i giavellotti. Ed ecco che già possiamo comprendere la tattica che intrapresero i contadini. Innanzitutto si erano radunati in un numero superiore rispetto al bersaglio, dieci o dodici secondo il cronista, e poi avevano armi per tenere a distanza l’avversario. Magari per ferirgli il cavallo. Una tattica, direi, di base dell’umanità intera. Mi ricorda varie tecniche di caccia, anche antiche, laddove è fondamentale tenersi lontani dalla bestia, che con un singolo attacco potrebbe mandarti al Creatore. Assaltare un cavaliere può essere visto come un qualcosa di simile, ovvero una battuta di caccia a una belva feroce e pericolosissima.
C’è da dire che, a questo punto, la preda non è più una sola, come magari si aspettavano di trovare i contadini, ma due: perché Bertrando si era portato dietro questo secondo cavaliere. E quindi, assumendo che i contadini fossero stati 12, allora il rapporto era di 6:1. Sei contadini per cavaliere. Si potrebbe dire che le cose si mettevano un po’ meglio per Betrand, se non fosse che a questo punto entra in gioco l’altro elemento tattico scelto dai contadini: il terreno.
I contadini si erano piazzati appositamente dietro un muro su una salita. Perché in quelle condizioni era difficile manovrare un destriero, seppure un destriero da guerra. E la salita non era neppure una salita normale, poiché il cronista la definisce una salita “scivolosa”. Questo dettaglio, secondo me, è stato quello che ha deciso l’esito dello scontro. E ora vi dico il perché.
Bersagliati da frecce e giavellotti, i due cavalieri tentarono di reagire e far valere la loro forza individuale sui contadini. Ma nel gettarsi alla carica per contrattaccare, il destriero di Bertrando scivolò sul sentiero in salita, per poi cadere rovinosamente al suolo. Come cadde? Malissimo, ovviamente. Le cadute da cavallo, tra le altre cose, sono ancora oggi pericolosissime, e in certi casi ci si rimette la vita. Bertrando fu particolarmente sfortunato perché il cavallo gli cadde addosso schiacciandogli la gamba, lasciandolo così incastrato, impossibilitato a muoversi sotto tutto quel peso. Era comunque vivo, e valente guerriero, perciò mantenne la presa sulla spada e si difendeva in modo tale che nessuno osava avvicinarsi. Quel cavaliere genovese, incastrato sotto il peso del cavallo, era ancora letale per i contadini. Ma loro, come nelle crudeli battute di caccia, fecero valere il numero e le armi a distanza.
Continuarono a bersagliarlo da lontano, per tenersi alla larga dalle micidiali spadate, finché non lo martoriarono di colpi, tra frecce e giavellotti, e io mi immagino a questo punto anche pietre. Il cronista, naturalmente, non essendo un romanziere, si ferma qui con la descrizione. Ma io che scrivo narrativa non posso fare a meno di arricchire la scena immaginandola vividamente. Ditemi se anche voi immaginate questo disgraziato per terra, coperto di sangue e sudore, in mezzo a un bel polverone dovuto allo scalpitio di cavalli e contadini che si fanno avanti uno alla volta, lanciando quel che hanno da lanciare per poi balzar via, al sicuro. Col rumore delle pietre che sbattono contro l’osso del cranio e i corvacci che già volteggiano perché sanno che a breve ci sarà da banchettare.
Una scena drammatica, direi.
Un momento, ma l’altro cavaliere? Che fine ha fatto? Eh, quello non ha potuto fare granché, perché è rimasto ferito già all’inizio dell’assalto, sotto le frecciate e i giavellotti. E pure il suo cavallo è rimasto ferito. Infatti, dice il cronista che rimase addirittura a piedi, probabilmente smontato o caduto anche lui. E mentre Bertrando si buscava una tempesta di dardi, incastrato là dov’era, questo cavaliere se la diede a gambe, a piedi, verso le montagne. Però i contadini lo inseguirono e lo scannarono. E gli tagliarono la testa.
Anche Bertrando subì la stessa sorte, dopo esser stato ridotto a un colabrodo. Perché il principie di Antiochia e conte di Tripoli aveva chiesto proprio quella, la testa: prova del delitto nonché fattura per riscuotere il pagamento. Misero la macabra testimonianza sgocciolante in un sacco e la portarono al loro principesco committente, che ne ebbe gran gioia e li ripagò molto bene tutti quanti.
La notizia si diffuse rapidamente in tutto il regno crociato. I cavalieri che avevano seguito Bertrando in questa rivolta per portare Gibelletto alla libertà e indipendenza, persero tutto il loro coraggio. Abbandonarono la causa, dal primo all’ultimo, giurando fedeltà al principe. Tutti tranne il padre di Bertrando, Ugo di Gibelletto. Il quale continuò a combattere per la causa, con la barba che si allungava sempre di più col passare degli anni: un voto, ci dice il cronista, che il signore aveva fatto in segno di lutto per il figlio.
Per ammazzare un cavaliere medievale, dunque, può bastare un pugno di contadini. E la faccenda potrebbe divenire persino abbastanza facile, come lo fu questa disgrazia d’Oltremare, se i contadini scelgono accuratamente la loro strategia e, soprattutto, il terreno. I cavalli devono finire intralciati: ottenuto questo, il compito è fatto. Di episodi simili è piena la storia, questo è solo uno dei tanti in cui mi sono imbattuto. Episodi che mi servono di ispirazione per scrivere i miei romanzi, tra l’altro: ne “La Stirpe delle Ossa”, il primo volume delle Cronache di Spada e Malora, ho messo in scena un combattimento tra contadini e cavalieri. L’elemento del terreno è fondamentale, ma non si tratta di una salita, bensì di una palude, altrettanto difficoltosa da attraversare, e letale.
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