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9 Maggio 2017

Principessa Mononoke

principessa mononoke

Il film d’animazione dello Studio Ghibli fra maledizioni, spiriti e il conflitto dell’uomo con il mondo naturale

Quando ci si avvicina a un’opera di Hayao Miyazaki le aspettative vengono quasi sempre travolte dallo stupore. E’ impossibile che un suo film risulti prevedibile. Sarà il fascino di una cultura opposta alla nostra, sarà la bravura artistica o l’elevato livello qualitativo delle sceneggiature; il fatto è che lo Studio Ghibli colpisce in pieno l’animo umano. Lo fa con precisione chirurgica, facendo leva sulle emozioni dal primo minuto fino ai titoli di coda. Per questo, dopo Porco Rosso, voglio presentarvi un altro dei capolavori di Miyazaki che mi è rimasto impresso nella memoria: Principessa Mononoke.

Principessa Mononoke è un film del 1997, ambientato nel periodo Muromachi giapponese(XIV secolo circa). Questa precisa epoca storica non viene sfruttata come semplice ambientazione, ma come pretesto per rafforzare il tema centrale dell’intera opera. Si tratta infatti di un periodo proto-siderurgico nel quale l’umanità si affanna sulle nuove scoperte militari, e in particolare sulla polvere nera. L’uomo scava la terra per estrarre il ferro, brucia le foreste, prosciuga i laghi e impegna il suo tempo nell’unica attività di cui sembra capace: la guerra.

Le attività umane si diffondono come una piaga, consumando rapidamente l’ambiente naturale. Questo non piace per niente agli dei. La tradizione giapponese è ricca di credenze e culti legati alla terra, una mitologia spirituale che abbiamo cominciato a conoscere grazie ai prodotti dell’intrattenimento nipponico pervenuti fino a noi. Tutti questi spiriti (o kami) rappresentano la connessione fra l’uomo e il divino, fenomeni naturali e animali il cui scopo è quello di proteggere la vita. Ed è proprio uno di questi spiriti a dare inizio alla storia.

Un gigantesco spirito cinghiale esce dalla foresta, dirigendosi a tutta velocità verso un villaggio. E’ pieno di odio, il manto coperto da un intreccio oscuro e ribollente, gli occhi rossi. Ashitaka, coraggioso guerriero del villaggio, riesce a ucciderlo per salvare gli abitanti però resta ferito nello scontro. Parte del rancore dello spirito infetta la ferita sul suo braccio, ammalandolo. La causa di tutto questo odio sembrerebbe provenire da una pallottola di ferro, che Ashitaka trova nella carcassa dell’animale dopo averlo abbattuto. Per scoprire cosa è successo, e trovare una cura per guarire dalla malattia, decide di partire per un lungo viaggio.

Già dalle prime sequenze veniamo catturati da una forte simbologia spirituale (poco frequente nelle moderne storie occidentali). La rabbia della natura a lungo violentata esplode nell’ira incontrollata di uno spirito che, a causa del dolore, si tramuta in una creatura maligna, diretta conseguenza delle azioni dell’uomo. Tutto questo viene mostrato nella pellicola con una tale naturalezza e sensibilità da risultare perfettamente ragionevole.

Forse leggendo queste righe vi potrebbe sembrare un banale film a tema ecologico come ne abbiamo già visti (Pochaontas, Avatar, Wall-E, e il quasi dimenticato FernGully); ma non lasciate che il pregiudizio vi impedisca di vivere questa storia. L’importante non è l’originalità di un tema, ma quanto originalmente venga trattato. E il maestro Miyazaki su questo è un vero portento, ve l’assicuro.

Se non lo avete già visto, recuperate Principessa Mononoke e ritagliatevi uno spazietto serale per la visione. Mi ringrazierete.

Lorenzo Manara
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