Missione da assassini

Cronaca di un doppio assassinio alle crociate per opera dell’Ordine degli assassini: la leggendaria setta medievale
“Nell’anno di Cristo 1270 il sultano di Babilonia (…) sapeva bene che messer Filippo di Montfort, signore di Tiro, era un signore molto saggio (…) per cui il sultano lo volle uccidere.” Comincia così l’episodio di oggi, ripreso dalla Cronaca trecentesca del templare di Tiro. Episodio che ci racconta di una coppia di assassini, membri della celebre e leggendaria setta medievale dell’ordine di Alamut, alle prese con una missione per assassinare un barone cristiano. Con tanto di travestimenti, intrighi, coltelli intrisi di veleno e un combattimento finale degno di un film. Una storia bellissima, che non vedo l’ora di raccontarvi. Perciò, iniziamo subito.
Siamo nel Medioevo, in Terra Santa, sul finire di un’epoca di campagne militari e conquiste per il dominio del Santo Sepolcro; quando i cristiani d’Occidente, partiti per l’Oltremare ormai da più di due secoli, erano riusciti a ritagliarsi un regno tutto loro, il Regno Crociato. Un regno abbastanza ampio e ricco, ma di difficilissimo mantenimento. Di fatto i crociati che avevano deciso di vivere in Terra Santa si trovavano a mesi di distanza dai luoghi di origine, completamente circondati dal nemico. Una condizione estrema, di logoramento, che di lì a poco sarebbe giunta a una violentissima conclusione.
Tiro era una delle città di questo regno cristiano al di là del mare, strappato dalle mani degli infedeli che avevano tutta l’intenzione di riprenderselo. Il signore di Tiro era Filippo di Montfort: signore molto saggio, come definito dal cronista, che aveva una certa influenza sull’intero Regno Crociato e pure oltre, fino in Occidente. Poiché “nulla si faceva tra i cristiani di Siria senza il suo avviso”, visto che teneva una fitta corrispondenza con tutti gli altri signori e baroni, ed era pure in grado di sollecitare genti armate a raggiungerlo in Oltremare, in continuazione. Vista la sua importanza, perciò, il sultano decise di toglierlo di mezzo.
Il cosiddetto sultano di Babilonia (come veniva chiamato all’epoca), ovvero il sultano dell’Egitto mamelucco, la potenza dominante in quell’angolo di mediterraneo, assoldò dei leggendari sicari per portare a termine l’arduo compito. Sicari che conoscevano tutti, in quei luoghi, per via delle storie che si raccontavano sul loro conto, e dell’aura mistica che li circondava, al pari di creature soprannaturali, e malefiche: gli assassini.
L’ordine degli Assassini era una setta religiosa capeggiata da un capo militare e spirituale; un gran maestro o Vecchio della Montagna come lo chiamavano gli occidentali: Shaykh al Jabal, in arabo, “Signore della montagna”. Il termine Assassini viene spesso ricondotto all’arabo Hashashin, che alcuni traducono come “coloro che fanno uso di Hashish”. Un’affermazione ormai ritenuta fasulla da molti storici, poiché formulata nell’Ottocento e priva di fondamenti. Come gran parte dei falsi miti medievali, che sono nati appunto nell’Ottocento, quando si sparava un po’ a zero senza star troppo a verificare le cose. Miti che poi sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo, per qualche motivo.
Parlo dell’ordine degli assassini in maniera approfondita nell’episodio dedicato, che trovate nella playlist di Leggende Affilate.
In ogni caso, gli assassini pare che fossero bravi a fare una determinata cosa, come suggerisce il nome: ammazzare. Bastava assoldarli, e quelli svolgevano il compito di sicari, e lo facevano in svariate maniere: da quelle immediate e plateali, in mezzo alla folla senza curarsi di niente e di nessuno, a quelle silenziose, che richiedevano camuffamenti e pure mesi, se non anni di tempo per essere portate a termine. L’impresa per assassinare il signore di Tiro rientrava in questa seconda categoria.
Il sultano assoldò due assassini. Li vestì con abiti da soldato saraceno e li mandò a Tiro, con l’obiettivo di uccidere Filippo di Montfort. E già che c’erano, avrebbero dovuto uccidere pure il nipote, ovvero Giuliano, il signore di Sidone. Due assassini per due bersagli importanti. Semplice, no?
Il signore cristiano di Sidone fu aggiunto alla lista della spesa non tanto per le sue capacità politiche o per la sua influenza. Anzi, era considerato un uomo che gestiva male simili faccende. Egli fu scelto perché “per quanto riguarda le cose di guerra era pratico ed esperto e prode e ardito e grande e forte”. Era un valoroso cavaliere, insomma, e quindi facciamo fuori pure lui.
I due assassini travestiti da soldati giunsero quindi a Tiro. Ma che razza di travestimento è, direte voi? Non sarebbe stato meglio travestirsi da cristiani? O quanto meno servi comuni? No, la scelta di giungere dinnanzi al portone di Tiro sotto spoglie saracene era stata fatta per via della migliore accoglienza a seguito di una promessa: un bel battesimo. Eh, già, perché gli infedeli, soprattutto gli infedeli guerrieri, erano visti abbastanza bene dai cristiani quando si presentavano penitenti, vogliosi d’essere convertiti. E accadeva. In Terra Santa esistevano interi contingenti armati composti proprio da saraceni convertiti. Quelli vicini all’ordine templare, forse i più prestigiosi, erano chiamati turcopoli. E divenire turcopolo era l’obiettivo primario dei due assassini. Ecco perché si presentarono al signore di Tiro come soldati saraceni, a cavallo, cinti di armi turchesche e cinture d’argento: elementi di pregio che servivano per apparire come dei bravi guerrieri saraceni, l’equivalente del cavaliere occidentale. E ottenere subito rispetto. E ci riuscirono.
Il signore di Tiro, come faceva sempre, accolse questi due cavalieri saraceni e fu lieto della loro volontà di convertirsi. E offrì loro la sua stessa benedizione, divenendo di fatto padrino di uno dei due. E come secondo padrino, gli assassini fecero in modo di chiamare l’altro gran barone cristiano: ovvero il nipote di Filippo, Giuliano, signore di Sidone.
Quindi, Filippo signore di Tiro divenne padrino di un assassino, dandogli il suo stesso nome, Filippo. Giuliano, signore di Sidone, divenne padrino del secondo assassino dandogli il suo stesso nome, Giuliano. I due assassini travestiti da soldati saraceni divennero turcopoli cristiani battezzati e ottennero pure due nuovi nomi, ereditati dai gran signori di due grandi città; gli stessi che di lì a poco dovevano uccidere. Insomma, si capisce che tutto questo, seppur non raccontato dettagliatamente dal cronista, fu possibile grazie alle capacità degli assassini di entrare in sintonia con le vittime: di avvicinarsi tanto da divenire importanti per loro, parte di una ristrettissima cerchia di persone e ottenendo, quindi, rispetto e, soprattutto, fiducia. Quella era la chiave per compiere un delitto così difficoltoso, che potremmo definire quasi un regicidio.
Filippo e Giuliano non devono essere visti, oggi, da noi, come due stupidi sempliciotti. Di turcopoli ce n’erano molti, ed era cosa normale. La bravura, la dedizione, e il pelo sullo stomaco, sta tutto dalla parte dei due assassini. Erano loro l’anormalità, decisamente.
Anormalità, però, che comunque fu in qualche modo annunciata. Perché si sparse la voce, non si sa come, che qualcuno voleva far la pelle al signore di Tiro. Nessuna menzione dei due assassini, ovviamente, che rimasero fuori da ogni sospetto. E il signore di Tiro stesso diede poca importanza a queste voci. L’unica cosa che fece fu di cominciare a identificare con controlli più stringenti gli stranieri che entravano a Tiro. Senza sapere, però, che i due stranieri più pericolosi erano già entrati, e vivevano con lui.
I due assassini avevano cominciato a vivere a stretto contatto col signore di Tiro, nell’attesa che si presentasse l’occasione giusta. E di conseguenza avevano fatto conoscenza con molte persone, una delle quali divenne a loro molto vicina: un servo siriano, un semplice manovale che spazzava e puliva e dava il cencio. Un giorno i tre mangiarono insieme, nella casa degli assassini (perché essendo turcopoli importanti era stata loro assegnata pure una casa, in città), e accadde che il servo si trovò da solo. Poiché un assassino era andato fuori a comprare il pane e l’altro era andato in cucina. Il servo curiosone, rovistando tra le cose dei due, trovò una faretra (un contenitore che serve a tenere le frecce) all’interno della quale era nascosto un pugnale avvolto in uno straccio imbevuto di una sostanza: veleno. Da ciò, il servo capì immediatamente chi fossero in realtà quei due. Perché il pugnale avvelenato era come un marchio inconfondibile. Un elemento, in verità, che non sappiamo quanto sia storicamente attendibile.
Personalmente, ritengo che quella delle lame avvelenate sia una fascinazione relegata alla letteratura, a questi resoconti di cronaca. Per ragioni pratiche. Perché non si può portare a spasso una lama imbevuta di veleno. Si seccherebbe in breve tempo. Anche se avvolta in stracci. Per mantenerla umida, ci vorrebbe un contenitore ermetico, come il ciotolino dentro cui chiudiamo il riso col tonno e i pomodorini da portare in ufficio. E se anche nel medioevo fosse esistito un fodero ermetico di quel tipo, la quantità di veleno che può stare appiccicata, aderente a una lama d’acciaio senza sgocciolare, è davvero irrisoria.
E non tirate fuori la storia dello scolasangue, ora, eh. Ovvero dello sguscio, chiamato anche colasangue o scolasangue: quella scanalatura che in molti tipi di spada corre lungo tutta la lama, dalla guardia fin quasi alla punta. Una scanalatura che non serviva a far sgorgare sangue dalle viscere del nemico, e non serviva nemmeno a trattenere un’eventuale dose di veleno. Lo dico perché mi è capitato di incontrare questo mito, uno dei tanti sul medioevo, che racconta di come questa scanalatura sulle lame servisse a raccogliere il veleno. Ma raccogliere come? Per far stare un liquido all’interno di quella scanalatura senza versarlo dovresti restare con la lama perfettamente parallela al terreno, in equilibrio, e se sbagli ti cade tutto per terra. Non ha senso, è una di quelle dicerie che non appena ci si pensa un po’ di più in profondità, nel dettaglio del realismo, crolla tutto. Così come, secondo me, non si inzuppavano i pugnali in secchi di veleno per accoltellare la gente. Sapete cosa avrebbe funzionato ancora meglio? Strofinare la lama in una bella pozza di fango, o tra le viscere di una carcassa d’un qualche animale. Altro che veleno, con un bella infezione si sarebbe risolta la cosa alla svelta. Ma forse, anche questo, non era granché probabile nel medioevo per via delle scarse conoscenze medico-batteriologiche.
In ogni caso, il servo trovò questo pugnale imbevuto di veleno (e anche qui, ora che ci penso, mi chiedo come abbia fatto il servo a capire che era veleno. Lo conosceva? L’ha forse provato da qualche parte? Non si sa.) Comunque il servo decise di sfruttare l’informazione a suo vantaggio. Restò a pranzo coi due assassini e rivelò loro tutto quanto. Mossa pericolosissima a mio avviso, perché almeno io avrei avuto paura di una ritorsione. Gli assassini, però, non gli fecero niente. E, anzi, gli chiesero di non rivelare a nessuno quel che aveva scoperto dietro promessa di un pagamento: 100 bisanti, da consegnare entro domenica. Il servo, che era in malafede, accettò la proposta. Tenne la bocca chiusa, senza avvertire il suo signore, e si mise in attesa che i due compissero il loro dovere, e ricevere così i soldi quella stessa domenica.
Il giorno in cui aveva avuto luogo questo pranzo tra amici (o compagni di merende, tanto per fare un parallelo) era giovedì. Gli assassini avevano quindi 3 giorni per ammazzare i due bersagli. Il problema, però, è che uno dei due: Giuliano, signore di Sidone, se n’era andato a stare a Beirut. E quindi i due avrebbero dovuto compiere la missione separati, in contemporanea. Perché non c’era più tempo, stava per saltare la copertura. Un assassino, il protetto di Giuliano, se ne andò a Beirut. Il protetto di Filippo, invece, se ne restò a Tiro. Ed è proprio lui che seguiremo in un’avventurosa quanto rocambolesca impresa. Visto che il momento tanto atteso si presentò proprio domenica, alla santa messa.
L’assassino si recò alla cappella e sull’uscio trovò proprio il suo signore, Filippo, che discorreva con un uomo. Filippo era felice di vederlo lì davanti, pronto a partecipare alla messa che stava per iniziare. E gli diede pure del denaro. Il denaro serviva per l’offerta. L’assassino entrò quindi nella cappella e diede uno sguardo in giro, per vedere quante persone c’erano. Per sua felicità, scoprì che all’interno vi era soltanto un cavaliere di nome Guglielmo di Picquigny e il figlio dello stesso signore di Tiro: Giovanni. Due sole persone, nonché disarmate e colte alla sprovvista nella casa del Signore: un’occasione così non si sarebbe più ripresentata.
L’assassino quindi tornò sui suoi passi, all’ingresso della cappella, e attese che il signore di Tiro entrasse, varcando l’uscio. L’assassino tirò fuori il famoso pugnale avvelenato e lo fece saettare verso colui che lo aveva fatto battezzare, suo padrino, che lo aveva accolto e gli aveva dato pure il suo stesso nome. Ma la missione era sacra per i membri della setta, e dunque, senza alcun ripensamento, fu portato a termine il misfatto.
L’assassino pugnalò al petto il signore di Tiro, il quale, in quel momento, si stava accarezzando l’anello al dito con la mano sollevata. E quindi il pugnale incontrò prima la mano della vittima, poi proseguì la corsa fino a piantarsi in petto. E la vittima rimase con la mano tra petto e pugnale, tipo inchiodata. L’assassino lo lasciò così, col pugnale ficcato addosso. Estrasse la spada e tornò dentro la cappella, per colpire pure il figlio del signore di Tiro, che stava lì e già che c’era perché non far fuori pure lui.
Però il figlio Giovanni si era accorto del trambusto, e scorse l’assassino con la spada sguainata. Siccome era disarmato, corse verso l’altare e si butto dietrò una tavola di legno dipinto, di quelle pale artistiche religiose con raffigurazioni di santi vari. L’assassino, che era uno straordinario combattente, sollevò la spada e gliela scagliò dietro, per colpirlo dalla distanza. La spada, lanciata tipo giavellotto come si vede fare nei film, andò a conficcarsi nella pala di legno, tra le figure dei santi. E mancò Giovanni. Giovanni allora si lanciò sulla spada per prenderla lui, ma era così conficcata che non riuscì a toglierla per usarla. L’assassino gli andò addosso e pure il cavaliere, quel tale Guglielmo che era lì per prendere messa, si buttò nella mischia. Una mischia furibonda, perché l’assassino era un osso duro.
Giovanni, figlio del signore di Tiro, afferrò l’assassino per i capelli, mentre con l’altra mano tentava ancora di sfilare la spada dalla pala di legno. Tuttavia, nel farlo, strofinò le dita sul filo tagliente della spada, e se le mozzò. Si mozzò due dita della mano. Da solo. Per cercare di sfilare la spada. Il cavaliere Guglielmo allora prese l’assassino alla schiena, abbracciandolo con quanta forza aveva in corpo. Ma quello era davvero un osso duro, e non mollava.
Nel frattempo, fuori, il signore di Tiro con il pugnale avvelenato piantato in petto, e la mano rimasta sotto, conficcata, barcollava nel piazzale fuori dalla cappella. S’andò a sedere su un sedile di pietra e solo allora fu scorto dalle guardie. Con un filo di voce spiegò che nella cappella c’era un assassino, e che suo figlio era in pericolo. Allora i soldati corsero dentro, in gruppo, riuscirono a neutralizzare l’assassino e lo ammazzarono lì, nella casa del Signore. Il figlio Giovanni andò subito dal padre, che lo vide un’ultima volta e, con un sorriso sulle labbra, lieto che fosse vivo, spirò, abbandonando l’anima al Creatore. Morì così, Filippo, signore di Tiro.
L’assassino, che era già morto, fu comunque trascinato al patibolo e appeso, per farlo vedere a tutti. Furono mandati due messaggeri a Beirut, dal nipote del defunto Filippo, per avvertirlo. Un messaggero per mare e uno a cavallo, tanto per essere sicuri, e si riuscì così a sventare quel secondo assassinio. Il sicario della setta, però, non fu mai preso, perso per sempre tra le sabbie del deserto. Un altro responsabile, invece, fu preso eccome. Ricordate quel servo sleale e malvagio che per una borsa di soldi mai ricevuta aveva tradito il suo signore provocandone la morte? Ecco, pure lui aveva tentato di dileguarsi. Ma fu scovato e fu obbligato a confessare. E a quel punto gli mozzarono la lingua, la mano destra e, infine, appesero pure lui. Per farlo vedere a tutti.
Si conclude così questo episodio bellissimo, pieno di intrighi, avventure e pure un bel combattimento di spada finale all’interno di una cappella. Si potrebbe parlare a lungo di tutto questo, compreso il coreografico lancio della spada nel finale, conficcata su pala artistico religiosa. Per quanto affascinante, credo proprio, però, che si tratti di una licenza poetica del cronista; perché scagliare una spada a questo modo è davvero una mossa da film, che nessuno farebbe mai in un vero combattimento. Anche perché, infatti, è stata la mossa che ha decretato la sconfitta dell’assassino, se ci pensate. Con la spada probabilmente avrebbe vinto lui. Però, ecco, non voglio sempre rovinare i sogni di voialtri masnadieri. Quindi facciamo finta che sia successo veramente. Anzi, siccome so che mi seguono tantissimi rievocatori e maestri di spada, e scherma storica, ditemi voi nei commenti cosa ne pensate. E lasciate anche un bel like perché questa storia lo merita. Come tutte le altre della playlist “Leggende Affilate”. Se non l’avete ancora fatto, iscrivetevi al canale e diffondete il verbo.
“Nell’anno di Cristo 1270 al-Bunduqdäri, sultano di Babilonia, che volentieri ricercava e procurava danni ai cristiani, sapeva bene che messer Filippo di Montfort, signore di Tiro, era un signore molto saggio, e che nulla si faceva tra i cristiani di Siria senza il suo avviso, e sapeva pure che lui mandava lettere e messaggi ai re e ai signori d’oltremare per sollecitarli a venire di qua, per cui il sultano lo volle uccidere. E perciò prese dei saraceni che si chiamano assassini, e li vestì con abiti da soldato e li mandò a Tiro, e gli ordinò di uccidere il signore di Tiro e il signore di Sidone, quello che l’aveva venduta al Tempio e che era nipote del signore di Tiro, perché questo signore di Sidone, benché fosse un uomo ostinato e avesse gestito male le sue faccende, tuttavia per quanto riguarda le cose di guerra era pratico ed esperto e prode e ardito e grande e forte, e perciò il sultano volle che anche lui fosse ucciso. Questi due assassini vennero a Tiro a cavallo, cinti di armi turchesche e cintura d’argento alla maniera dei soldati saraceni, e vennero direttamente dal signore di Tiro e gli chiesero il battesimo. Il signore di Tiro, che da questo non si guardava, li fece battezzare e a uno mise il suo nome e lo chiamò Filippo, e l’altro lo fece battezzare il signore di Sidone e fu suo padrino e gli mise il suo nome, Giuliano, e il signore di Tiro li prese tutti e due al suo servizio come turcopoli, e si fidava molto di loro il signore di Tiro. E tuttavia era stato detto al signore di Tiro che doveva stare in guardia, perché il sultano voleva la sua morte e aveva mandato degli assassini a ucciderlo, per cui il signore di Tiro rispose che non era più signore di Tiro e che suo figlio ne era signore, così che il sultano non avrebbe ottenuto niente a ucciderlo, e però faceva ricercare e identificare dal suo visconte gli stranieri che venivano a Tiro, ma non si guardò da questi due, che teneva nella sua dimora. Ora accadde un giorno che questi due assassini avevano acquisito grande familiarità con un siriano del Levante al servizio del signore di Tiro [come] farras, che cioë spazzava e puliva e bagnava d’acqua il palazzo e il cortile e badava alle tende, quando c’era bisogno. E questo farras andò un giorno a mangiare con i due assassini e, quando si trovava a casa loro e uno di loro era andato a comprare il pane e l’altro era andato in cucina, questo farras tirò fuori una freccia dalla loro faretra e nella faretra c’era un coltello unto di veleno avvolto in un pezzo di stoffa, e da ciò lui capì che erano assassini. E quando erano insieme a tavola e mangiavano, questo farras voleva rivelare tutta la faccenda, come aveva trovato il coltello, e quando quelli videro che erano stati scoperti, confessarono l’impresa e gli dissero che dovevano uccidere da parte del sultano il signore di Tiro e il signore di Sidone, e promisero di dargli cento bisanti vecchi entro domenica, e questo accadde giovedì. E in seguito i due assassini pensarono che se non davano i cento bisanti al farras la domenica, li avrebbe smascherati, e perciò pensarono di anticipare la loro impresa alla prossima domenica. E in tutto ciò il signore di Sidone se n’era andato a stare a Beirut, per cui uno dei due assassini, quello che era figlioccio del signore di Sidone, se ne andò a Beirut per uccidere il signore di Sidone, e l’altro rimase a Tiro, e stabilirono che la prossima domenica l’uno avrebbe svolto il suo compito a Tiro e l’altro a Beirut, tutto in un giorno. Questo sleale farras tenne segreta la vicenda in attesa di avere i cento bisanti che quelli gli avevano promesso, e non la fece sapere né al signore né al luogotenente, da persona sleale. E quando venne il giorno della domenica l’assassino venne di buon mattino a corte e andò verso la cappella del signore e trovò messer Filippo di Montfort davanti alla sua cappella, che era in piedi e parlava con un suo borghese, e questo assassino venne verso di lui e lo salutò, per cui il signore gli disse che era un buon cristiano e faceva bene a venire alla messa, e gli diede del denaro per l’offerta, perché era cominciata un’altra messa per il giovane signore suo figlio, messer Giovanni di Montfort, e a quell’ora c’era l’offerta. E l’assassino prese il denaro e andò ad offrirlo, e allora vide che non c’era nella cappella che il giovane signore e solo un cavaliere, che si chiamava Guglielmo di Picquigny, e gli sembrò che poteva compiere il suo delitto, e al momento di uscire si accostò al gran signore messer Filippo di Montfort e lo colpì con il coltello al petto, e poiché in quel momento il detto signore si carezzava un anello al dito nell’altra mano, gli trafisse nel colpirlo la mano che teneva al petto, e gli lasciò dentro il coltello e mise mano alla spada e entrò nella cappella per uccidere l’altro signore. Ma quando colpi il gran signore, il colpo risuonò così forte che il giovane signore, ‘che era nella cappella [e] leggeva il suo libro, girò la testa per sapere che succedeva e allora vide l’assassino, la spada snudata in mano, così che si gettò dietro l’altare, che davanti aveva una tavola dipinta con figure di santi, ed era entrato dentro, e al gettarsi il signore dentro l’altare l’assassino lanciò la spada per colpirlo sulla tavola dell’altare, e si conficcò tanto che non la poté tirar via. E messer Guglielmo di Picquigny venne e afferrò da dietro l’assassino più forte che poté, e disse al signore di uscir fuori, e il signore uscì e lo prese per i capelli con una mano e [con] l’altra mano voleva togliergli la spada e si tagliò due dita della mano. E in tutto ciò il gran signore di Montfort uscì dall’ingresso della cappella e camminava bellamente con i suoi piedi, e si sedette su un sedile di pietra davanti all’ingresso della sua stanza, e quello che parlava con lui si alzò e diede l’allarme ai sergenti, che subito salirono su e andarono verso il gran signore, che gli disse: “Andate a aiutare mio figlio nella cappella, che il saraceno lo ammazza!” E tutti corsero alla cappella, e subito uccisero l’assassino e liberarono il giovane signore di Tiro, che andò da suo padre, e il padre aprì gli occhi e lo vide sano e salvo, così alzò le mani al cielo ringraziando Dio, senza più parlare, e l’anima lo lasciò e mori, e l’assassino così come fu ucciso, fu trascinato e appeso. E subito si mandò a Beirut una barca per mare, e un turcopolo per terra, per far sapere al signore di Sidone che si guardasse dall’assassino e per prenderlo, ma non appena l’assassino senti parlare di questo salì sul suo cavallo e se ne fuggì dai saraceni e si mise in salvo, perché non avevano sorveglianza nell’andare dai cristiani ai saraceni. E quello sleale farras, quando vide la cosa svolgersi così, andò a sperdersi dove nessuno sapeva della sua vicenda, e perciò lo si riconobbe quando si domandò di lui, così che fu ricercato e preso e fatto confessare, e confessò quel che sapeva, per cui gli fu strappata la lingua dalla mascella e tagliata la mano destra, e fu trascinato e appeso. Il signore di Tiro fu sepolto nella chiesa madre di Tiro, chiamata Santa Croce, e da ciò la cristianità ricevette gran danno. Ora smetteremo di parlarvi di lui, che Dio ne abbia l’anima, e vi racconterò di un altro argomento.” (Cronaca del Templare di Tiro 138. (374))
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