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8 Gennaio 2025

La battaglia del Campo delle mosche, 1359

battaglia del campo delle mosche

Lo scontro tra la Repubblica di Firenze e la Grande Compagnia del Conte Lando: la battaglia del Campo delle Mosche

Grazie al cinema siamo abituati ad assistere a grandiose battaglie medievali, laddove ingenti schieramenti si fronteggiano in forze di migliaia di uomini, uno di fronte all’altro, attraverso sterminati campi d’erba verde tutta ben tagliata, senza manco un alberello di mezzo (perché sennò, si sciupa la scena). E spesso ci si chiede, (o almeno, io mi chiedevo quand’ero giovane e inesperto), ma come decidevano d’incontrarsi proprio lì? Come facevano a trovarsi d’accordo, due interi eserciti, soffermandosi in un luogo preciso che andasse bene a entrambi, concordando addirittura il giorno? Di certo migliaia di uomini non si trovavano lì per caso. Ecco, oggi voglio parlare proprio di questo: dei dettagli che si nascondono dietro lo svolgimento di battaglie campali nel Medioevo (e di tutte le altre epoche, in sostanza), e voglio farlo tramite una battaglia, la famosissima battaglia del Campo delle Mosche, del 1359.

Sto scherzando, questa battaglia non è famosa manco per niente. Ma io lo faccio apposta, eh. Cerco di scegliere appositamente gli eventi storici meno raccontati perché li trovo più interessanti. E divertenti. E dunque catapultiamoci negli eventi di quell’estate trecentesca, per scoprire come s’incontravano, in genere, due interi eserciti, e soprattutto per sapere cosa accadde in quella affascinante battaglia dal nome così evocativo, grezzo, perfetto per un romanzo dark fantasy simil medievale.

I due contendenti di questo epico scontro erano l’esercito della Repubblica di Firenze da un lato, guidato da Pandolfo II Malatesta, e la Grande Compagnia del Conte Lando dall’altro. Una compagnia di ventura composta esclusivamente da mercenari, per lo più tedeschi, e stranieri d’altri paesi. Abbiamo già conosciuto quei sanguinari prezzolati del conte, in alcuni precedenti episodi di Leggende Affilate, tra cui una rovinosa imboscata cui furono soggetti l’anno prima della battaglia del Campo delle Mosche, nel 1358. Un’imboscata che costò loro molti uomini, soldi e reputazione. Perché a sconfiggerli furono degli irriducibili montanari tosco-romagnoli. Il che fu piuttosto disdicevole per una compagnia mercenaria così celebre, come lo era la Grande Compagnia. Racconto tutto nel dettaglio nell’episodio dedicato.

Il fatto è che i fasti della Grande Compagnia, che lasciava terra bruciata laddove passava, stavano per finire. Un tempo erano davvero i numeri uno, e capitava che quei masnadieri venissero pagati addirittura per togliersi dai piedi, semplicemente perché si aveva paura di loro. 50.000 furono i ducati che ricevettero dal legato pontificio, poco tempo prima, per abbandonare lo stato della Chiesa. Perché la presenza di una così grossa e potente compagnia di ventura spaventava; e alcuni, come lo stesso papa, preferivano pagarli anticipatamente solo per dir loro d’andarsene. Il conte Lando, visto come funzionavano bene le cose, ci riprovò con la Repubblica di Firenze. Andò dai fiorentini per esigere un pagamento come promessa di non far loro alcun danno, come avrebbero fatto i mafiosi secoli dopo: una sorta di pizzo. Ma Firenze non ci stava e armò l’esercito. Un’armata così composta: 2.000 “barbute di eletti” (che non erano i protagonisti prescelti delle storie fantasy, ma i cittadini chiamati alle armi), 2.000 “masnadieri contadini di bello apparecchio” (ovvero, altri fiorentini chiamati alle armi, stavolta provenienti dal contado, dalle campagne fuori città, e che erano di bello apparecchio, ovvero non erano pezzenti privi di valore ma gente con buone armi). Oltre a loro, l’esercito contava anche 500 ungari, mercenari assoldati per l’occasione provenienti dall’Ungheria, altre 1200 barbute di cittadini eletti e svariati alleati. Nello specifico: 400 cavalieri di Bernabò Visconti, 200 del marchese di Ferrara, 200 del signore di Padova, 300 del re Luigi di Taranto del regno di Napoli, 300 del legato pontificio, altri 50 cavalieri napoletani, 30 cavalieri parmensi di messer Lupo, 80 cavalieri da Arezzo con fanti e altri cittadini eletti; poi 200 fanti del conte Roberto, con 12 cavalieri di messer Ricciardo Cancellieri da Pistoia e altri 300 fanti. Tutto questo per un totale di circa 4.000 cavalieri e altrettanti pedoni. Sembra un sacco di gente, ed effettivamente è vero. Ma la Compagnia aveva più o meno lo stesso numero di armati. E dunque, penserete voi, ci siamo: i numeri sono equi, gli eserciti radunati, e finalmente giungiamo al momento dello scontro. Giusto? No, per niente.

Perché la compagnia del Conte Lando, abile stratega di origini sveve, si teneva lontana dal territorio fiorentino. Nonostante la sua fosse una masnada ricca di pericolosissimi sanguinari, veterani di mille battaglie, si guardava bene dall’ingaggiare battaglia con una repubblica intera, con tutti quegli alleati al seguito, e ulteriori mercenari che potevano spuntare chissà dove. Firenze, anche se piccola, disponeva di risorse incredibili, soprattutto in fatto d’alleanze, e soldi. Perciò il conte Lando si allontanò un po’, entrando nei confini di Pisa, la storica rivale di Firenze. Perché proprio lì? Perché era un territorio in cui i fiorentini non volevano metterci piede. Non tanto per paura dei pisani, ma perché erano in pace con loro, in quel momento. C’è da dire, poi, che Pisa incoraggiò quel passaggio. Perché nonostante la pace con Firenze, aveva intenzione di dare una mano al Conte Lando che si era apertamente messo in guerra con la sua storica rivale, anche solo con derrate, alloggi, e aiuti di questo genere. E, dice il cronista, fece anche di più: una promessa di intervento militare vero e proprio. I pisani avrebbero promesso di aiutare i mercenari della Grande Compagnia con 800 barbute e 2000 pedoni che stavano già radunati e pronti a intervenire in un’eventuale battaglia. Un intervento che avrebbe rotto la pace, sì, ma che avrebbe messo in difficoltà Firenze. Il Conte Lando con Pisa come alleata, si sentì a questo punto molto più sicuro, tanto da giocare pure in maniera teatrale. Perché forte di questa promessa e di un evidente vantaggio tattico, fece recapitare al capitano dei fiorentini un guanto di sfida, o guanto di battaglia.

Un guanto sanguinoso, tagliato in più parti, adagiato su una frasca spinosa. Il simbolismo è chiaro: ci troviamo di fronte a una sfida all’ultimo sangue, col chiaro intento di spaventare il nemico e, probabilmente, comunicargli che non verranno fatti prigionieri.

Di questa affascinante usanza dei guanti di sfida nel Medioevo racconto in un episodio dedicato nella playlist “Leggende Affilate”, dove unisco varie altre storie di guanti inviati per sfida e dileggio. In questo caso, comunque, il guanto non fu preso molto sul serio. Perché il capitano Pandolfo II Malatesta non appena lo vide si fece una gran risata. E per “letizia di tutto l’oste” pronunciò pure un discorso dal sapore cinematografico.

“Speriamo in Dio, e prendiamo fidanza e certezza d’avere vittoria di loro; e a chi manda il guanto direte, che tosto vedrà se l’intenzione sua risponderà alla fiera e aspra domanda.”

Come la compagnia mandò il guanto di sfida al nostro capitano, e la risposta fatta.” Libro Nono, Capitolo XXX

Insomma, i fiorentini, che avevano messo in piede un esercito prevalentemente cittadino, non avevano alcuna paura di misurarsi con soldati di mestiere, veterani abituati alle più sanguinose battaglie campali. Il momento era giunto: il momento di far la pugna.

Il conte Lando, dopo aver mandato il guanto di sfida, il 16 luglio 1359 si schierò con la sua Grande Compagnia su un rialzo circondato da torrenti e rive scoscese, allora chiamato Campo alle Mosche. Pandolfo II Malatesta, che aveva accettato la sfida, schierò il suo esercito dinnanzi al nemico. Ed eccoli là, uno davanti all’altro. Il problema, però, è che la Grande Compagnia stava su quel rialzo, ben protetta e difesa, e non scendeva. Pandolfo, dal canto suo, non voleva mica avanzare incontro a un netto svantaggio. E quindi, sì, s’erano dichiarati guerra, schierati uno di fronte all’altro, pronti a darsele, ma nessuno incominciava. Anzi, il Conte Lando coi “palaiuoli e i marraiuoli” rafforzò la sua posizione con barriere e steccati, erigendo un campo fortificato.

Allora i fiorentini fecero lo stesso. A meno di un miglio di distanza dai nemici eressero un loro campo fortificato, per dare inizio a una bella situazione di stallo. Non che fosse raro, eh: l’erigere accampamenti in prossimità di uno scontro campale era più che normale, e moltissime battaglie avevano luogo proprio in vicinanza, se non a ridosso degli accampamenti. Ma in questo caso lo stallo era ancora più evidente, perché il Conte Lando dopo aver lanciato il guanto non si decideva a lanciare l’attacco, e i fiorentini, invece, non avevano intenzione di sacrificarsi su quella salita, per finire massacrati dal nemico trincerato in una posizione di netto vantaggio.

La battaglia del Campo delle Mosche, perciò, ebbe inizio così, con due enormi accampamenti vicini l’uno all’altro, da cui partivano cavalieri e fanti per “scaramucciare”. Ovvero per punzecchiarsi. Perché i fiorentini tentavano di spingere il Conte a scendere da quel suo altopiano arroccato, e lo facevano mandando i 500 ungari a cavallo in prossimità delle palizzate avversarie, tirandogli addosso con le frecce. I mercenari della Grande Compagnia rispondevano tirando coi balestrieri, ma non s’azzardavano a scendere. Talvolta compivano qualche breve e fulminante sortita per sorprendere i fiorentini che si erano spinti fino alle palizzate, i quali, però, si ritiravano subito pensando d’essere inseguiti (cosa che, infine, non accadeva). E la cosiddetta “battaglia” del campo delle Mosche proseguì così. Coi due grandi eserciti che scaramucciavano, e come avrete intuito, lo fecero per giorni interi. Addirittura per una settimana.

Il tempo passava, tra una rapida galoppata per punzecchiarsi e una scarica di frecce. Tutto molto bello, ma due grandi eserciti hanno bisogno di sostentamento. E mica possono restare per troppo tempo in un luogo privo di risorse, come lo era il Campo delle Mosche. I fiorentini erano numerosi, ma molto vicini alla loro città. La linea di rifornimenti era ben organizzata e, non solo: continuavano ad arrivare alleati. Perché la notizia della battaglia al Campo delle Mosche con quei sanguinari dei tedeschi che finora avevano fatto il buono e il cattivo tempo in Italia, era giunta alle orecchie di tutti. E tutti accorrevano per menare un po’ quei mercenari bastardi. Una situazione, tutto sommato, vantaggiosa per Firenze. I ragazzi del Conte Lando, invece, se la passavano male.

Perché loro dipendevano da Pisa, la quale dopo una settimana di scaramucce senza conclusione, non sembrava più tanto determinata nel sostenerli. Forse l’indecisione tattica del condottiero tedesco aveva rovinato il supporto degli alleati. E quindi il vitto, procurato loro dalla città alleata, cominciò a scarseggiare. E il morale crollò di conseguenza. Insomma, i mercenari sono di certo pericolosi se hanno la pancia piena e le tasche pure, ma se queste due condizioni dovessero mancare, anche la loro fedeltà fa la stessa fine. Senza contare che il capitano nemico, Pandolfo II Malatesta, aveva mandato balestrieri e predoni sulle montagne verso Lucca per fare il giro e accerchiare la Grande Compagnia; e il conte lo venne a sapere. Insomma, le cose si mettevano male per i mercenari, che oltre a non compicciare nulla, arroccati lassù, stavano pure per finire in trappola.

Ed ecco che il 23 luglio 1359, il Conte Lando diede ordine ai suoi ragazzi di bruciar tutto di notte e partire subito l’indomani, all’alba. I mansadieri della Grande Compagnia levarono le tende, o meglio, le bruciarono lasciandosi tutto alle spalle, di fretta e furia come se fossero in fuga, e abbandonarono il Campo delle Mosche.

I fiorentini, dunque, vinsero. Una vittoria un po’ così, se dovessimo paragonarla alle grandi vittorie schiaccianti delle grandi e celebri battaglie. Ma in questo caso dobbiamo tenere di conto che si trattava di liberi cittadini chiamati alle armi per difendere la loro patria contro una masnada di sanguinari che avevano depredato e saccheggiato mezza Italia per anni. La notizia della fuga del Conte Lando viaggiò per il Bel Paese, facendo assai “manifesto”, come scrisse il cronista, “facendo conoscere pienamente a tutti i comuni di Toscana, e d’Italia, e a’signori, che gente di compagnia, quantunque fosse in numero grande, e terribile per sua operazione scellerata e crudele, si potea vincere e annullare.”

I malvagi mercenari possono essere battuti: questo fu l’insegnamento della battaglia del campo delle mosche. Un insegnamento con cui il nostro popolo si è trovato a fare i conti per i secoli a venire, perché di mercenari che son giunti in Italia per ammazzare e depredare ce ne sono stati un’infinità. Ma è tutta gente vile e codarda, dice sempre il cronista, che “si dilegua a chi mostra i denti”.

Con questo lieto fine concludiamo l’episodio. Spero d’avervi spronato a non farvi scoraggiare dalle difficoltà della vita e a mostrare i denti. Perché Iddio aiuta i tenaci.

Lorenzo Manara
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