Battaglia di Altopascio (1325): La Sconfitta di Firenze

Nel 1325 una meteora squarciò il cielo di Firenze: presagio di sconfitta. Scopri la Battaglia di Altopascio, vinta da Castruccio Castracani
Il 22 maggio 1325, il cielo sopra Firenze brucia. Una scia di fuoco squarcia la notte e tutti, dai cittadini agli astrologi, sanno bene cosa significhi: maledizione. Quel segno dice che la guerra sta arrivando, e che nessuno tornerà indietro vivo. Ma i potenti non ascoltano i segnali. Firenze mette in campo un’armata straordinaria 17.000 soldati, mercenari d’élite e cavalieri, dando fondo alle casse della Repubblica. L’obiettivo è il campo di battaglia tetro e fangoso di Altopascio, nella provincia di Lucca, per andare incontro a colui che compirà la profezia con la sua stessa spada: Castruccio Castracani. Questa è la storia di una guerra che non andava combattuta… la storia di una battaglia maledetta.
L’ascesa di Castruccio Castracani
Castruccio Castracani è un condottiero poco conosciuto oggigiorno, ma all’epoca era più temuto del Demonio. Machiavelli stesso nel Cinquecento lo definirà un principe ideale, lodando la forza politica, l’intelligenza, e il genio tattico militare. Oggi voglio raccontarvi di come questo condottiero lucchese mise in ginocchio una superpotenza medievale (Firenze) con una guerra che insanguinò l’intera Toscana. Evento che fu profetizzato da una meteora di passaggio e ben altri tre cattivi presagi. La cronaca di questi eventi proviene dalle parole di uno storico medievale, Giovanni Villani, fiorentino che visse proprio in quegli anni, e dunque testimone della battaglia, anche se di parte, come vedremo tra poco. Perciò, buttiamoci subito nella mischia e cominciamo questa storia dall’inizio, ovvero dal suo protagonista.
Castruccio Castracani era il peggior incubo della Firenze del Trecento. Nato a Lucca e diventato signore assoluto della sua città, è stato capace di trasformare una piccola realtà, abbastanza ricca ma dedita prevalentemente al commercio, in una potenza estesa su gran parte della Toscana. Le conquiste militari di Castruccio arrivarono fino alle porte di Firenze, minacciando gli stessi confini della città. Inoltre, era un ghibellino, ovvero della fazione imperiale. Firenze era invece profondamente guelfa, ovvero dalla parte del papa. Per tutti questi motivi, Castruccio incarna la nemesi dei fiorentini.
E non era solo un bravo condottiero, ma uno stratega che usava anche la politica e il denaro come armi, corrompendo gli avversari o seminando discordia tra le fazioni rivali. In un frangente ingaggiò pure degli assassini per eliminare avversari politici. Potremmo definirlo un eroe machiavellico, e infatti lo stesso Machiavelli scrisse una biografia su di lui, secoli dopo, per lodarne il carattere e le imprese.
La caduta di Pistoia e i presagi celesti
Imprese che, per raccontarle, ci vorrebbe un libro. Una delle sue conquiste più celebri, tra le cause che scatenarono la guerra maledetta con Firenze, fu la presa di Pistoia, ottenuta non con un lungo assedio, ma comprando il tradimento dei governanti locali per diecimila fiorini d’oro. La notizia dell’acquisto “sottobanco” giunse a Firenze durante una grande festa pubblica. I nobili e le persone più importanti stavano banchettando tutti insieme, quando a un certo punto la musica si interruppe. Il messaggero recava la terribile notizia che Castruccio era a Pistoia, città che allora era alle dipendenze di Firenze. Una città confinante importante, e la sua perdita metteva le truppe di Castruccio a un passo dalla città.
I fiorentini presenti al banchetto rovesciarono i tavoli e corsero a prendere le armi. Montarono a cavallo e partirono in fretta per andare a combattere Castruccio, e impedire che prendesse definitivamente la città di Pistoia. Ma giunti a metà strada, a Prato, scoprirono che ormai era troppo tardi. Pistoia era completamente persa, Castruccio ne era diventato il signore. Senza più speranza di riprenderla se non con un assedio, i cavalieri fiorentini furono costretti a fare marcia indietro, carichi di dolore e con un forte senso di paura per il futuro, capendo che il pericolo era ormai alle porte di casa. Ed è quella sera stessa che si palesa il primo di una serie di presagi che porteranno, poi, alla battaglia maledetta.
Quando i cavalieri tornano a Firenze, sconfitti senza neppure aver combattuto, nel bel mezzo del cielo appaiono due cerchi luminosi uniti tra loro, brillanti e colorati, che formano una sorta di arco splendente. Non è un’illusione passeggera, perché queste luci restano visibili per molto tempo sotto gli occhi di tutti. Una visione considerata nefasta, un cattivo presagio, senza dubbio. Ma tale avvertimento, fu presto ignorato. Firenze non poteva di certo mollare i suoi domini per qualche lucetta in cielo, e dunque si preparò a combattere la minaccia.
Raimondo di Cardona e la marcia verso il padule
Il 6 maggio arriva in città il nuovo capitano di guerra, ovvero il condottiero che si sarebbe occupato di muovere la macchina bellica fiorentina. Il suo nome era Ramon de Cardona, un nobile cavaliere catalano, tradotto in Raimondo di Cardona. Era considerato un comandante esperto e di alto profilo, incaricato di guidare l’esercito dei Guelfi grazie alla sua esperienza di guerra. Raimondo giura fedeltà in piazza San Giovanni e non perde tempo in cerimonie. Ordina subito l’attacco al castello di Artimino, una roccaforte strategica pistoiese che minaccia Firenze. La riscossa fiorentina è iniziata, ma la sfida contro Castruccio Castracani è ancora lunga e pericolosa. Infatti, adesso abbiamo il secondo dei presagi, un avvertimento che stavolta proviene dalle viscere della terra.
Il 21 maggio, la terra inizia a tremare con una violenza inaudita. Una scossa di terremoto che dura poco, ma lo spavento tra i cittadini di Firenze è enorme. E’ evidente ormai, che sta per succedere qualcosa di grave, e i segni lo testimoniano. Ma non è finita qui. La sera successiva, il 22 maggio, accade qualcosa di ancora più incredibile e spaventoso, il terzo cattivo presagio: un’enorme scia luminosa attraversa il cielo proprio sopra la città. Villani descrive questo fenomeno come un raggio di vapore infuocato che vola sopra i tetti. Possiamo ipotizzare che si trattasse di un meteorite particolarmente luminoso che brucia entrando a contatto con l’atmosfera terrestre. Per gli abitanti della Firenze del tempo, però, questi non erano semplici eventi naturali. In un mondo dominato dalla fede e dalla superstizione, i terremoti e le luci celesti erano visti come presagi o messaggi divini. Si diffuse rapidamente la convinzione che quei segni annunciassero l’arrivo di pericoli imminenti, guerre o grandi stravolgimenti politici. La città intera rimase in attesa, colpita da un profondo senso di incertezza verso ciò che sarebbe accaduto.
La mobilitazione della Repubblica
Castruccio avanzava. Occupò e fortificò il castello di Montale, una posizione strategica tra Pistoia e Firenze, sempre più vicino, sempre più minaccioso. La reazione dei fiorentini fu immediata e imponente. Il 12 giugno il capitano di guerra Raimondo di Cardona partì verso Prato con i soldati professionisti, seguito il giorno dopo da tutta la forza militare della città. Mentre i soldati marciavano, le campane di Firenze suonavano per chiamare il popolo alle armi. Montale era il primo obiettivo da liberare.
La guerra vera e propria stava per cominciare, ed ecco che accadde un fatto inquietante. Il quarto segno. L’ultimo avvertimento prima della rovina: una campana della città, catturata anni prima proprio al castello di Montale, si infranse non appena iniziò a rintoccare. Per molti testimoni dell’epoca questo fu un segno terribile, il peggiore di tutti, persino della meteora. Presagio di ciò che sarebbe accaduto sul campo di battaglia. Ma ormai era troppo tardi, Firenze aveva radunato l’esercito. La guerra era iniziata.
Questa contro Castruccio Castracani fu tra le spedizioni più grandi che il Comune di Firenze ha mai messo in piedi con le proprie forze, senza chiedere aiuto agli alleati. I numeri erano impressionanti: la città schierò 400 cavalieri scelti tra le migliori famiglie, supportati da oltre 500 uomini d’arme su cavalli pesanti. Si trattava della forza d’urto principale del Medioevo, composta da soldati protetti da armature di ferro che caricavano il nemico con una potenza devastante. A questi si aggiungevano 1.500 mercenari professionisti provenienti da tutta Europa. C’erano seicento francesi, duecento tedeschi esperti e veterani catalani, borgognoni, fiamminghi e provenzali. Erano le “masnade”, truppe assoldate che vivevano per la guerra e che portavano con sé un’esperienza preziosa. L’esercito dei cittadini a piedi, composto da contadini e residenti della città, superava le 15.000 unità. Per un totale di più di 17.000 uomini.
Per fare un paragone, Enrico V d’Inghilterra durante la guerra dei Cent’Anni invase la Francia e combatté ad Azincourt con 13-15.000 uomini. All’assedio di Orleans, Giovanna d’Arco ne guidò meno di 10.000. Firenze, da sola, schierava una forza capace di competere con interi regni, come Francia e Inghilterra.
Una macchina da guerra straordinaria, che necessitava di logistica e organizzazione. Tutto ciò che si portava dietro dava origine a un gigantesco accampamento che era una vera e propria città, con oltre 800 tende di lino e padiglioni colorati. Per coordinare i movimenti di questa massa enorme di uomini, i fiorentini usavano una campana: il suo suono indicava quando smontare le tende o prepararsi al combattimento. E tale campana era montata sul carroccio, un grande carro da guerra che recava i simboli della città, stendardi, reliquie, talvolta pure un chierico che benediva e diceva messa. Tra le reliquie in questo caso vi era il cero che ogni anno Firenze offriva a san Giovanni, durante la festa patronale. Un oggetto sacro molto importante, che scopriremo che fine farà al termine di questo episodio. Insomma, il carroccio era un arnese da difendere e custodire al pari delle insegne delle legioni romane.
Il costo di tutta questa operazione era folle, oltre 3.000 fiorini d’oro al giorno, una cifra enorme per l’epoca. Basti pensare che nella spedizione c’erano più di 300 destrieri costosissimi, cavalli da guerra di pregio che da soli valevano una fortuna, oltre a seimila animali tra cavalli normali e bestie da soma per il trasporto dei rifornimenti. Firenze stava mettendo in gioco tutta la sua ricchezza per schiacciare il nemico. Ma lo sappiamo bene, più sono grandi e più fanno rumore quando cadono…
Manovre e inganni tra Pistoia e Lucca
Nel giugno del 1325, l’esercito di Firenze decise di sferrare un attacco decisivo contro Pistoia. Al loro fianco si erano uniti ulteriori duecento cavalieri provenienti da Siena. Questa enorme forza militare partì da Prato e si accampò ad Agliana, distruggendo fortezze e saccheggiando le campagne circostanti per indebolire il nemico. Addirittura, per umiliare i Pistoiesi, il giorno di San Giovanni i Fiorentini organizzarono una corsa del palio proprio sotto le mura della città. Il premio era un prezioso drappo di velluto. Dentro Pistoia si trovava Castruccio Castracani. Egli era un guerriero astuto e temuto, ma in quel momento preferì restare al sicuro dietro le mura con i suoi soldati e il popolo. Castruccio sapeva che uscire in campo aperto contro un esercito così numeroso sarebbe stato un suicidio, quindi si limitò a sorvegliare la città. In quel momento, lui non aveva che poche migliaia di uomini.
Visto che le cose si prolungavano sotto le mura di Pistoia, il comandante fiorentino Raimondo di Cardona decise di spostare le sue forze verso altre località e roccaforti, per far valere tutto il numero di un’armata così soverchiante, in grado di occuparsi di più obiettivi contemporaneamente. Col suo immenso esercito imperversò attraverso i domini lucchesi, conquistando svariate posizioni importanti. Quando Castruccio ricevette la notizia, dice il cronista Villani, rimase sbigottito. Quasi non poteva credere che i suoi nemici fossero stati così rapidi. Capì subito che restare a Pistoia era diventato inutile. Lasciò alcuni soldati a difesa della città e si spostò rapidamente verso sud, nella Valdinievole, accampandosi a Vivinaia, vicino a Montecarlo di Lucca. Qui iniziò a fortificare ogni posizione possibile, scavando fossati e costruendo palizzate che andavano dalle colline fino alla zona paludosa per impedire l’avanzata fiorentina. Inoltre, chiese aiuto a tutti i suoi alleati ghibellini. Per quanto fosse un bravo condottiero, aveva bisogno di molti più uomini. Ricevette rinforzi dal vescovo di Arezzo e da vari nobili della Romagna e della Maremma, arrivando a radunare circa millecinquecento cavalieri.
Ma anche Firenze raccolse ulteriori truppe. La notizia delle vittorie che riportavano nei territori di Castruccio si diffuse rapidamente e tutti gli alleati guelfi mandarono rinforzi massicci. Cavalieri arrivarono da Siena, Perugia, Bologna e persino dalle città romagnole. L’esercito fiorentino divenne un’armata colossale che non si poteva più nemmeno contare, e stando al cronista schierava oltre tremila cavalieri. Un’armata che come minimo era di 3-4 volte superiore a quella di Castruccio. Se non di più. Ma i quattro segni che la terra e il cielo avevano inviato ai fiorentini erano ancora impressi nella memoria del popolo. Nonostante quella mastodontica armata, i presagi avevano parlato chiaro. E presto sarebbero si sarebbero compiuti.
L’assedio di Altopascio e la pestilenza
Il 4 agosto, l’armata di Firenze cinse d’assedio la cittadina di Altopascio, una roccaforte protetta da mura altissime e fossi profondi, oltre che da un ambiente circostante malsano e pericoloso. Si trovava infatti in una zona paludosa, vicino al padule della Gusciana, un’area acquitrinosa dove l’aria era malsana e le zanzare portavano malattie letali, come la malaria.
Uno dei luoghi che ho studiato come ispirazione per i miei romanzi. La Stirpe delle Ossa e La Canzone dei Morti, ambientati in un medioevo italiano del 1350, tra paludi e acquitrini dove serpeggia la malora, una vera disgrazia per i protagonisti di quelle storie. Perché disgrazie e malattie da sempre sono viste come una condanna, proprio come abbiamo visto con la serie di presagi che avevano colpito i fiorentini.
Presagi che, come annunciato, sfociarono in una tragedia. Una terribile pestilenza si abbatté sull’accampamento fiorentino. Molti nobili cittadini e soldati mercenari morirono in pochi giorni. Io mi immagino che qualcuno abbia rammentato, in punto di morte, di quella palla di fuoco avvistata in cielo, e il suono della campana che si infrange.
In questo scenario di sofferenza, Castruccio Castracani tentò la via del sotterfugio. Riuscì a corrompere due cavalieri francesi che combattevano nell’esercito fiorentino, Miles d’Alzurro e Guglielmo di Noren. Ma non andò a buon fine. Il complotto fu scoperto solo perché lo stesso Miles, colto dalla malattia e prossimo alla morte, decise di confessare tutto per l’estrema unzione. Il suo complice, Guglielmo, fu catturato, ma i fiorentini non ebbero il coraggio di giustiziarlo per paura di far infuriare gli altri soldati francesi. Dinamiche interessanti, quando ci sono di mezzo così tanti alleati da tenere buoni, a costo di risultare troppo “accondiscendenti”. I fiorentini lo lasciarono andare, e lui, fingendo di tornare a Napoli, scappò tra le braccia di Castruccio per continuare a combattere contro Firenze.
L’assedio ad Altopascio continuò e Castruccio non rimase a guardare. Sferrò attacchi rapidi e feroci, le cosiddette “cavalcate”, nei dintorni di Prato e Firenze, bruciando raccolti e razziando bestiame per seminare il panico. L’obiettivo era costringere i fiorentini a levare l’assedio per correre a difendere le proprie case. Durante uno di questi attacchi, a Carmignano, i fiorentini riuscirono a reagire con forza. Supportati dai cavalieri bolognesi, contrattaccarono e inflissero una dura lezione alle truppe di Castruccio, uccidendo e catturando centinaia di uomini.
I Fiorentini, galvanizzati dalla vittoria di Carmignano, puntano gli occhi sul castello di Altopascio. Lo pongono sotto assedio, lo conquistano e il 25 agosto l’intera Altopascio apre le porte. È un successo enorme, la prima grande riconquista. Ma proprio nel momento della vittoria, l’esercito di Firenze inizia a sgretolarsi dall’interno.
Arroganza e rovina nei pantani
Mentre i soldati festeggiano, i fiorentini al comando litigano su cosa fare dopo. In questo stallo, l’accampamento diventa un luogo malsano. Molti soldati si ammalano e la voglia di combattere svanisce. A peggiorare le cose interviene la corruzione. Lo stesso Raimondo, il comandante dell’esercito fiorentino, inizia a vendere licenze. Perché ogni giorno di mantenimento di quella gigantesca armata costa. Chiunque abbia soldi, quindi, può pagare e abbandonare il campo. In breve tempo, la forza dell’esercito si riduce drasticamente e Raimondo si ritrova con meno della metà dei suoi uomini. I cittadini più esperti, che fungono da consiglieri di guerra, capiscono che marciare verso Lucca è una pazzia. Castruccio Castracani ha costruito fortificazioni imbattibili. La scelta logica sarebbe fermarsi, riorganizzare i soldati, e conquistare altre piccole località dei dintorni. Eppure, l’arroganza vince sulla ragione. Un gruppo di nobili e popolani influenti, accecati dalla voglia di gloria e convinti che tutto sia facile, spinge per marciare direttamente su Lucca. Si sceglie così la strategia peggiore.
Il 9 settembre l’esercito lascia Altopascio, ma invece di posizionarsi in alto, sulle colline, i comandanti commettono un errore imperdonabile: si accampano in basso, presso l’abbazia di Pozzevere, proprio in mezzo ai pantani. Una zona umida e fangosa, praticamente una trappola. Quando Dio vuole punire qualcuno, gli toglie per prima cosa il senno, dice il cronista, e qui sembra proprio che i Fiorentini abbiano perso la testa.
L’arrivo di Azzo Visconti
C’è da dire, però, che neppure le truppe di Castruccio se la passano bene. Sono stremate dalle malattie e dalla fame dell’assedio, ma lui non si arrende. Decide di fortificare ogni singola altura strategica intorno al pantano dove si erano accampati i fiorentini. Tante colline ben difese per impedire ai fiorentini di passare e raggiungere Lucca. Castruccio sa che non può resistere a lungo da solo, ma capisce anche di avere un vantaggio tattico: i fiorentini si sono spinti in una zona dove lui può colpirli duramente, a patto di avere più soldati. Per ottenere rinforzi, gioca ancora la carta della diplomazia e del denaro. Invia un messaggio a Galeazzo Visconti, il capitano di Milano. Il quale delega suo figlio, Azzo Visconti, di andare a Lucca da Castruccio, al comando di duecento cavalieri inviati da Mantova e ottocento “oltramontani”. Costoro sono mercenari tedeschi, famosi per la loro devastante carica. Un valido aiuto che permetterebbe a Castruccio di trionfare. Ma sono lontani, e non è detto che riescano ad arrivare in tempo. Castruccio deve inventarsi qualcosa. E, a tal proposito, corre in suo aiuto un errore tattico dello stesso comandante nemico. Un altro errore.
I Fiorentini si sono già posizionati male sul terreno, ma il loro comandante catalano, messer Raimondo, decide di raddoppiare. Invece di correggere il tiro, manda una piccola pattuglia di cavalieri e spianatori a preparare il terreno per una marcia. Gli spianatori erano operai incaricati di livellare il suolo o abbattere ostacoli per permettere il passaggio dei soldati. I quali hanno bisogno di un contingente che li protegga mentre lavorano, di fatto una piccola porzione di esercito. Nel far questo, però, il capitano di guerra fiorentino li manda troppo lontani dal grosso dell’esercito. Così lontani che diventano vulnerabili, e appetibili.
La schermaglia di Pozzevere
Castruccio osserva tutto dall’alto di una collina e capisce che è il momento di colpire. Divide i suoi uomini in piccoli gruppi e attacca i soldati che proteggevano gli operai. Inizia così una schermaglia veloce, un combattimento utile per infastidire il nemico. La situazione però sfugge di mano. Circa duecento cavalieri fiorentini, francesi e tedeschi, tra i migliori dell’esercito, lasciano l’accampamento fiorentino e si buttano nella mischia senza aspettare ordini precisi. Anche Castruccio lancia i suoi. Quella che doveva essere una piccola rissa si trasforma in una battaglia feroce. Per ore i cavalieri si caricano, scontrandosi ripetutamente. I Fiorentini sono in trecento contro seicento avversari, ma combattono con una forza incredibile. Riescono a respingere i soldati di Castruccio e potrebbero anche vincere se Raimondo mandasse rinforzi. Il comandante fiorentino però resta fermo. Ennesimo, grave, errore.
L’esercito fiorentino è troppo grande, ed è finito in un pantano. Il tempo che ci vuole per radunarlo e schierarlo è troppo. Inoltre, una volta pronto, tale esercito si blocca davanti a un fosso e a uno spazio troppo ristretto per passare, che fa da imbuto. Castruccio, vedendo l’esitazione e la fatica che fa l’esercito nemico a raggiungere gli alleati nella mischia, decide di rilanciare. Si getta personalmente a combattere e viene persino sbalzato da cavallo e ferito, ma la superiorità numerica dei suoi alla fine prevale. Col calare del sole e l’arrivo del buio, i Fiorentini sono costretti a ritirarsi e lasciano sul campo quaranta dei loro uomini migliori tra morti e prigionieri. Tra i catturati ci sono nobili importanti come Urlimbacca, un cavaliere tedesco, e Francesco Brunelleschi. Anche tra le file di Castruccio ci sono molti morti, ma nessuno dei suoi viene fatto prigioniero perché lui resta padrone del campo di battaglia. La vittoria, quel giorno, è sua.
La sera i due eserciti restano a guardarsi da lontano, nei rispettivi accampamenti. E ciascun esercito fa risuonare le trombe per dimostrare di non aver paura. Poi, cala la notte. E da quel momento, l’animo dei Fiorentini cambia. Non hanno più la stessa voglia di combattere. Castruccio invece è sempre più convinto di potercela fare. Invia falsi messaggi ai fiorentini, lasciando intendere che alcune fortezze della zona stiano per arrendersi, che i soldati di Castruccio sono sul punto di mollare. È una trappola per far restare laggiù i fiorentini, e tenerli bloccati in quel luogo fangoso e sfavorevole, aspettando il momento giusto per il colpo di grazia.
La battaglia decisiva
Pochi giorni dopo arriva una notizia che scuote l’esercito fiorentino. Azzo Visconti, signore di Milano, è giunto in soccorso di Castruccio con i suoi 1000 cavalieri, di cui ottocento formidabili cavalieri tedeschi. In quel periodo i mercenari tedeschi erano considerati i guerrieri più temibili d’Europa per la loro straordinaria forza d’urto a cavallo. La domenica mattina del 22 settembre i fiorentini avvertono il pericolo imminente. Decidono di abbandonare l’abbazia di Pozzevere in mezzo alle paludi impantanate e si spostano di nuovo verso Altopascio. I soldati fiorentini vogliono mettersi in una posizione sicura (finalmente), ma la loro mossa arriva troppo tardi.
Vedendo i nemici prossimi a ritirarsi dai loro sudici accampamenti, Castruccio capì che era giunto il momento ideale per colpire. Il condottiero lucchese aveva bisogno immediato del suo alleato, Azzo Visconti, e dei suoi ottocento cavalieri.
Ma Azzo, che si godeva il riposo a Lucca, pose una condizione non negoziabile: voleva subito seimila fiorini d’oro. Nulla di personale, erano solo affari. Castruccio, benché non disponesse di quella cifra enorme, era disperato e doveva agire in fretta.
Qui la cronaca di Villani inserisce un dettaglio molto interessante: Azzo, ospite della città, si intratteneva con i nobili del luogo e, in particolare, con le belle donne di Lucca. Tra queste, specificamente incaricata, vi era la moglie di Castruccio.
A quanto pare, durante le fasi più delicate della trattativa, Castruccio lasciò la consorte e le nobili dame lucchesi a “sollecitare” Azzo, mentre lui correva dai mercanti per racimolare la somma. Il termine “sollecitare”, nel linguaggio della cronaca, indica un’insistenza pressante. Tuttavia, il fatto che si usassero proprio le donne più affascinanti per operare questa “pressione” suggerisce che l’atmosfera creata a Lucca, quel giorno, fosse piccante.
Insomma, molti potrebbero male interpretare questo passaggio della cronaca. Un testo che tratteggia Castruccio come un eroe spregiudicato (machiavellico) capace di sfruttare tutto quello che aveva in possesso, comprese le belle donne della sua città, tra cui la moglie. Un’insinuazione che riflette la posizione del cronista stesso che, ricordiamolo è un fiorentino guelfo. Castruccio, per lui, era il nemico ghibellino, bersaglio perfetto per un po’ di sana propaganda.
Scene piccanti vere o false, alla fine Castruccio riuscì a ottenere in prestito i seimila fiorini e li consegnò al condottiero milanese. Azzo Visconti intascò la gigantesca somma e, finalmente promise di cavalcare con le sue truppe la mattina del lunedì.
Castruccio non aspetta un secondo di più. Rientra al suo accampamento militare nel cuore della notte. È inquieto e ha un solo grande timore. Ha paura che i fiorentini scappino via. Lui non vuole una vittoria momentanea, col nemico in fuga. Lui vuole schiacciare Firenze sul campo. Perciò prepara il suo esercito per la grande battaglia, quella decisiva, in attesa che il nemico raccolga la sfida. E così avviene.
Quel lunedì mattina del settembre 1325, l’esercito di Firenze si schiera in ordine di battaglia. Duemila cavalieri e ottomila fanti: 10.000 uomini in totale. Il numero è ridotto rispetto all’inizio della campagna a causa delle malattie e di molti uomini che sono già tornati a casa. I soldati iniziano a sfilare davanti al nemico facendo un gran rumore con trombe e bandiere al vento per provocare la battaglia. Dall’altra parte del campo, Castruccio ha con sé solo 1400 cavalieri. Nonostante sia in svantaggio numerico, però, non intende mollare. E, anzi, inizia a scendere dal colle per ingaggiare battaglia. Usa una tattica precisa: tiene i fiorentini “a badalucco”. In termini militari della toscana medievale, significa impegnare il nemico in piccole scaramucce senza fare sul serio, solo per distrarlo e guadagnare tempo. Castruccio sta infatti aspettando dei rinforzi fondamentali. Verso le nove del mattino infatti, arriva Azzo Visconti con i suoi 1000 cavalieri circa. Ora Castruccio può schierare 2400 cavalieri, superando in numero i 2000 di Firenze. La battaglia vera e propria può cominciare.
Castruccio compie una scelta tattica molto astuta: lascia la sua fanteria al sicuro sulle alture del poggio e lancia in pianura solo la cavalleria pesante per travolgere i fiorentini i quali, inizialmente, partirono all’attacco con un piccolo gruppo d’élite composto da circa centocinquanta cavalieri tra francesi e fiorentini, i più coraggiosi e impetuosi dell’esercito. Questi erano i feditori, ovvero i reparti scelti che avevano il compito di colpire per primi il nemico per rompere le sue linee. Famosissimo feditore fu un tale di nome Dante Alighieri, che combatté a Campaldino nel 1289 proprio come cavaliere apripista, tra i primi a caricare.
Questo primo assalto dei feditori fiorentini travolse le truppe tedesche di Azzo, creando un varco nella loro formazione. Sembrava l’inizio di una vittoria schiacciante da parte di Firenze, ma successe qualcosa di inaspettato. Il resto dei cavalieri fiorentini, che avrebbero dovuto seguire i feditori nella mischia e sbaragliare il nemico, rimasero fermi. 700, fondamentali cavalieri rimasero fermi. Erano guidati dal cavalier Bornio, un nobile indebitato proprio coi Visconti di Milano. Ed ecco che il cronista ci spiega subito cosa fosse accaduto, quel giorno di battaglia. Bornio vide il Visconti, davanti a lui, e decise di tradire i suoi stessi cittadini per motivi economici personali.
Tradimento confermato dal fatto che, dopo la battaglia, l’uomo sparì nel nulla, alimentando le voci di un accordo segreto per sabotare l’esercito fiorentino. Segno di una disfatta da tempo annunciata da quattro profezie che adesso stavano per compiersi in maniera definitiva.
In un esercito medievale la bandiera era il punto di riferimento visivo fondamentale e in quell’istante tutti videro le bandiere di quei 700 cavalieri sotto il comando di Bornio che voltavano i destrieri e andavano via dallo scontro. Una vista devastante per tutti, compreso il capitano di guerra di Firenze.
Raimondo, forse spiazzato dal tradimento, forse impaurito, commise l’ennesimo errore, quello fatale: restò fermo con il corpo principale dell’esercito. Se avesse spinto i suoi uomini a supporto di quei bravi feditori, che erano riusciti a scompigliare le file tedesche di Castruccio, avrebbe vinto facilmente. Invece, l’incertezza bloccò i soldati, che rimasero come pietrificati di fronte al nemico.
Il massacro e l’umiliazione finale
Mentre i cavalieri del traditore fuggivano dal campo, la battaglia si combatteva in maniera furiosa. I fanti fiorentini cercarono coraggiosamente di resistere all’urto nemico. Senza l’appoggio della cavalleria, però, la loro resistenza durò pochissimo. In meno di un’ora l’armata di Firenze fu completamente distrutta e iniziò la fase peggiore di ogni battaglia, quella conclusiva, ovvero la fuga. Una fuga che divenne fin da subito impossibile. Perché Castruccio Castracani aveva mosso in anticipo le sue truppe per occupare il ponte di Cappiano, alle spalle dell’esercito nemico. Un punto di passaggio obbligato sopra le paludi della zona. Quella che doveva essere una ritirata si trasformò in una letale trappola. L’intero esercito di Firenze fu annientato.
Tra i prigionieri eccellenti finì lo stesso capitano di guerra, Raimondo di Cardona, insieme a suo figlio e a numerosi baroni francesi. Caddero nelle mani dei nemici i migliori cavalieri di Firenze, nobili influenti e mercenari stranieri di grande fama. Chi non fu ucciso o catturato fuggì per i boschi, abbandonando tende, armi e bagagli.
Pochi giorni dopo, la sconfitta divenne totale. Vari castelli fiorentini si arresero, seguiti dalla stessa Altopascio. Per Firenze fu un colpo durissimo, una delle sconfitte più dure della sua storia. E secondo Giovanni Villani, questo disastro fu un castigo divino. Firenze era caduta vittima della propria superbia e dei troppi peccati, umiliata da un nemico considerato inferiore. Un’umiliazione che non finì sul campo.
Castruccio aveva anche catturato il Carroccio, il sacro simbolo della Repubblica con sopra gli stendardi, la campana e le reliquie. Pochi giorni dopo arrivò fin sotto le mura di Firenze, a Peretola, dove per vendicarsi delle offese subite a inizio guerra fece correre tre palii sotto gli occhi dei fiorentini disperati: uno di cavalieri, uno di fanti e uno, infamante, di prostitute. Il ritorno a Lucca fu un trionfo degno dei generali romani. Messer Raimondo di Cardona entrò in città camminando a piedi come un prigioniero qualunque, seguendo il carroccio conquistato. Ricordate il cero sacro che i fiorentini portavano sul carroccio? Castruccio lo portò nel Duomo di Lucca e invece di offrirlo a san Giovanni, lo offrì al suo santo patrono. Come conclude Villani, Firenze fu punita non solo nelle armi, ma nel suo orgoglio più profondo. Una disfatta totale che era stata scritta nel cielo, ma a cui i potenti non vollero credere.
Come andò a finire, dopo? Castruccio Castracani fu una meteora, proprio come quella che incendiò il cielo di Firenze prima della battaglia. Nel 1328, all’apice del suo potere, si ammalò di malaria e morì. Il dominio che aveva messo in piedi, conquista dopo conquista, scomparve con lui. E Lucca tornò a essere la piccola e ricca città di mercanti senza alcuna mira espansionistica, chiusa nelle sue belle mura per i secoli a venire. Si potrebbe dire che la storia sarebbe potuta andare in maniera molto diversa se Castruccio Castracani si fosse preso un semplice raffreddore, invece della malora. Ma così vanno le cose.
Questo episodio l’ho narrato dal vivo proprio a Pistoia grazie all’associazione Fantàsio, che promuove la cultura e la storia locale, e mi ha invitato a raccontare le gesta di un personaggio straordinario, che sono contento di aver approfondito. Ti invito a conoscere l’associazione per partecipare ai loro prossimi eventi (Instagram).
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